di Alessandro Panozzo
Eccoci arrivati all’atteso concerto conclusivo di questa edizione di MusicAteneo 2018: l’appuntamento è per lunedì 11 giugno, alle ore 21 nell’Aula Magna di Santa Lucia. Sarà il Maestro Filippo Maria Bressan a dirigere l’Orchestra e il Coro in un concerto interamente dedicato alla musica francese, con la partecipazione dei solisti Arianna Rinaldi (mezzosoprano) e Marco Bussi (baritono).
Si conclude con questo concerto un’edizione di MusicAteneo che ha festeggiato più di qualche anniversario. Tra questi la triste ricorrenza della fine del primo grande conflitto mondiale, terminato nel novembre di un secolo fa, che vide ingentissime perdite e atrocità commesse da entrambe le parti. Finì un’epoca in Europa: i cannoni spensero le luci che la pace e il progresso avevano acceso nella ville lumière. La Belle Époque, con il suo ottimismo sembrava promettere benessere e longevità, ma l’industria invece stava già sfornando nuove e terribili armi.
L’arte si trovò impreparata ad affrontare la tragedia. Ipersensibile alla crisi e all’imminente decadenza, il clima post-romantico si tradusse da un lato in estenuati atteggiamenti decadenti, crepuscolari, simbolistici ed estetizzanti che guardavano al passato con un senso di malinconica nostalgia; dall’altro, in moti pionieristici e vitalistici che cavalcavano la cieca fiducia nella tecnica e nella psicanalisi verso slanci futuristici, dadaisti, surreali, o comunque di rottura con la tradizione. La guerra spazzò via molto di questo, causando un trauma profondo e un’intera “generazione perduta”, fornendo in più le basi per un successivo e ancor più terribile conflitto mondiale.
La musica ebbe innumerevoli occasioni per ricordare e sottolineare gli effetti e le sue conseguenze drammatiche, ma preferì vestire gli abiti della consolatrice, a lei più congeniale. Se si considera la fecondità artistica di quel periodo storico, la perdita di grandi menti nei campi di battaglia (come Boccioni, Sant’Elia, Macke, Rosenberg, e tanti altri) ci sembra oggi imperdonabile. Altrettanto scosso dev’essere stato Maurice Ravel che, reclutato nell’artiglieria dell’esercito francese, divenne testimone, da autista di automezzi e ambulanze, delle crude realtà del campo di battaglia. Visse la guerra di striscio, quasi subito infatti viene rimandato a casa per la sua salute cagionevole. Qui però dovette sopportare, una ad una, le strazianti notizie dei suoi amici caduti nelle trincee.
Stava lavorando ad una suite per pianoforte in stile francese, prima di arruolarsi nel 1915, suite dedicata al clavicembalista e organista François Couperin: una serie di danze della tradizione barocca che fossero un omaggio “non tanto al solo Couperin quanto all’intera musica francese del XVIII secolo”. Una volta ripreso il lavoro, però, si trovò profondamente cambiato interiormente: non solo la morte dei suoi amici, ma anche quella della madre e la malattia segnarono questo infelice periodo, del quale non se ne avverte traccia nella sua musica, così pura, rifinita e tesa esclusivamente al neoclassico ideale di perfezione formale. Sarà forse dovuto alla proverbiale riservatezza del compositore, che neanche nelle sue memorie accenna a questi particolari. Unico segnale sono le dediche che pone ad ogni movimento della partitura per pianoforte: ogni brano infatti è dedicato a un amico perso sul campo.
Il Prélude è dedicato alla memoria del tenente Jacques Charlot, pianista e trascrittore de Ma Mère l’Oye per pianoforte solo; la Fugue a tre voci, “alla memoria di Jean Cruppi”, figlio della dedicataria de L’Heure espagnole, M.me Jean Cruppi, che con la sua influenza ne permise la rappresentazione; la Forlane è dedicata alla memoria del tenente Gabriel Deluc, pittore basco di Saint-Jean-de-Luz; il vivace Rigaudon ai due fratelli Pierre e Pascal Gaudin, amici d’infanzia di Ravel, uccisi dalla stessa granata; il Menuet a Jean Dreyfus, presso il quale si sarebbe rifugiato dopo essere stato smobilitato; infine la Toccata, è dedicata al musicologo Joseph de Marliave, marito della pianista Marguerite Long, che fu la prima esecutrice della suite a Parigi, l’11 aprile 1919.
Nell’attesa della prima esecuzione, Ravel comincia ad orchestrare quattro brani della sua suite (esclude solo la Fuga e la Toccata), e lo fa da maestro qual è: utilizzando un’orchestra classica arricchita di un’arpa e una tromba. L’impasto sonoro rispecchia in tutto l’eleganza raggiunta dal solo pianoforte, i giochi di timbri poi aggiungono brio e ironia al tutto, quasi ignorando il contesto, anzi volendo dimenticarsene apposta, suggerendo quasi che la bellezza è capace di farci superare i dolori e le sofferenze che la vita ci impone.
Come non si avvertono i toni luttuosi e dolorosi, nascosti dietro la compassata ricerca estetica e formale, similmente un altro grande compositore lavorerà per sfocare i toni tragici di uno dei generi tradizionalmente più drammatici della musica sacra: il Requiem. Finito nel 1947, il Requiem op. 9 di Maurice Duruflé ha il pregio e l’unicità di essere in gran parte basato su melodie gregoriane della Missa pro Defunctis. L’idea dell’uso del canto gregoriano è voluta da una parte per la grande libertà ritmica che esso consente; libertà implicita nella prosodia ecclesiastica, esclusivamente devota alla veicolazione del messaggio sacro, più importante della musica da cantare. Ulteriore interesse è fornito dal suggestivo trattamento armonico del compositore che interpreta in chiave novecentesca e impressionistica la teoria modale medievale. Il risultato è una musica svincolata dalla tirannia degli accenti forti e deboli, e nella quale la melodia della tradizione gregoriana, trattata secondo le indicazioni metriche dei monaci benedettini di Solesmes, ne occupa la ribalta. L’orchestra accompagna, risponde, commenta e sostiene il canto, costruendoci intorno un raffinatissimo ed impeccabile affresco timbrico minuziosamente cesellato.
Il tono generale che pervade questo Requiem è stato paragonato per il senso di consolazione e di pace al famoso Requiem op. 48 di Fauré. Duruflé smentì categoricamente qualsiasi influenza, ribadendo al contrario che ha “cercato di circondarsi dello stile più appropriato al canto gregoriano”. Alcune similitudini però sono evidenti sia nella scelta dei brani musicati (e nella condivisa esclusione della sequenza Dies Iræ) che nelle entrate e distribuzione degli interventi vocali nei vari pezzi. Entrambi hanno scelto i testi più calmi e meditativi, Duruflé in più ne estrae i temi dal Kyriale simplex della liturgia (il Domine Jesu Christe per l’offertorium, il Pie Jesu ultima parte della sequenza, Lux æternam per il communio, il responsorio Libera me, e infine l’assoluzione In Paradisum che fa già parte dei riti di inumazione). Il misticismo del canto gregoriano contagia così anche quest’opera controcorrente per la sua epoca. Opera che rappresenta una risposta ai tempi difficili in cui è stata concepita (si tratta purtroppo della seconda guerra mondiale), non offrendo moniti ma un sentimento adeguato per meditare sulle ferite e sui lutti dell’uomo moderno.
Tutti i dettagli del concerto e il programma completo sono disponibili qui.
Ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili.